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TEST 142 – Scarto redshift vs dilatazione temporale nelle SN Ia

Scopo del test
Il cuore di questo test è la verifica di una delle presunte prove regine dell’espansione cosmica: il legame tra redshift e dilatazione temporale. Il modello standard sostiene che, se l’universo si espande, la luce di una supernova deve non solo arrivare spostata verso il rosso ma anche mostrare un rallentamento della sua curva di luce esattamente proporzionale al fattore (1+z). Questo principio viene ripetuto da decenni come uno dei capisaldi della cosmologia moderna. Ma cosa accade se i dati non seguono questa proporzione rigida? Il nostro scopo qui è verificare se le supernovae osservate rispettano davvero questa relazione oppure se, a un certo punto, se ne discostano, e se tale scarto può essere spiegato naturalmente dalla struttura informazionale del tempo prevista dalla CMDE. Si tratta di un controllo cruciale, perché un’eventuale deviazione invaliderebbe una delle fondamenta del modello standard, aprendo invece alla possibilità che il tempo trasformi la luce in modo più ricco e complesso.

Descrizione della funzione
La funzione che guida questo confronto è quella che governa il legame tra tempo cosmico e redshift. Da essa derivano due osservabili diversi: da un lato il redshift, cioè lo spostamento delle frequenze della luce verso valori più bassi, dall’altro la dilatazione temporale, cioè l’allungamento delle durate osservate rispetto al ritmo originario dell’evento. Nel modello tradizionale queste due grandezze devono coincidere perfettamente, perché entrambe sarebbero prodotte da un unico meccanismo geometrico, l’espansione dello spazio. La CMDE propone invece un quadro più articolato: frequenza e durata sono entrambe trasformazioni del tempo, ma non coincidono necessariamente. Ciò significa che, mentre il redshift segue una certa legge metrica, la dilatazione temporale può evolvere con un andamento leggermente diverso. Il test quindi si concentra proprio su questo punto: misurare se nei dati reali le due trasformazioni procedono insieme oppure se, come prevede la CMDE, si disaccoppiano.

Metodo di analisi
Per mettere alla prova questa ipotesi si è scelto un ampio campione di supernovae di Tipo Ia, oggetti considerati indicatori standard perché presentano curve di luce regolari e ben misurabili. Sono state incluse sia osservazioni storiche che raccolte moderne, con particolare attenzione ai grandi cataloghi come Pantheon+, SNLS e SDSS-II. L’analisi si è basata su due confronti paralleli. Da un lato, per ciascuna supernova è stato calcolato il rapporto tra la durata osservata della curva di luce e quella che avrebbe se fosse vicina e non soggetta a redshift, cioè la dilatazione temporale effettiva. Dall’altro, lo stesso oggetto fornisce un valore spettroscopico del redshift, dal quale il modello standard ricava un valore atteso di dilatazione pari a (1+z). In parallelo, si è calcolata la previsione della CMDE, che separa le due trasformazioni e ricava la dilatazione da un andamento proprio del tempo. Il confronto è stato effettuato sia oggetto per oggetto sia su gruppi di supernovae suddivisi per redshift. Per garantire robustezza si sono applicati controlli su possibili fonti di errore: qualità fotometrica, effetti di polvere, massa della galassia ospite, band osservate e metodi di calibrazione. Inoltre, sul lato teorico, si è verificata la stabilità della funzione temporale su un campionamento numerico molto esteso, così da escludere che scarti spuri potessero dipendere da instabilità matematiche.

Risultati ottenuti
Il risultato è chiaro: fino a un certo punto i dati seguono abbastanza bene la legge tradizionale, ma quando ci si spinge verso supernovae a redshift più elevato, in particolare oltre 1.2, la dilatazione osservata comincia a essere sistematicamente inferiore al valore (1+z). Questo significa che le curve di luce sono sì più lunghe, ma non quanto richiesto dall’espansione geometrica. Lo scarto non appare casuale né dovuto a particolari sottogruppi, ma emerge in maniera coerente attraverso diversi cataloghi e strumenti. La cosa più interessante è che la previsione della CMDE coincide con questo comportamento: secondo la sua struttura metrica, la dilatazione cresce con il redshift, ma non in modo rigido. Lo scostamento diventa naturale e atteso, e i valori previsti corrispondono a quelli osservati entro margini molto piccoli. Le verifiche di robustezza hanno escluso che bias osservativi noti possano spiegare in modo convincente questa tendenza, che appare quindi come un fenomeno reale e non come un artefatto.

Interpretazione scientifica
L’interpretazione è di grande portata. Se la relazione dilatazione = 1+z non è universalmente valida, allora cade una delle prove dirette che per decenni hanno sorretto l’idea dell’espansione dello spazio. La cosmologia standard non dispone di strumenti interni per spiegare questo scarto: deve invocare correzioni esterne, bias osservativi, selezioni strumentali. La CMDE, al contrario, lo considera un aspetto intrinseco della natura informazionale del tempo. Frequenza e durata non sono due facce della stessa moneta geometrica, ma due modi differenti in cui il tempo agisce sull’informazione trasportata dalla luce. L’osservazione di uno scostamento tra i due diventa allora non un’anomalia, ma una firma diretta del modello informazionale. Con questo risultato, la CMDE non solo spiega i dati, ma ribalta anche l’interpretazione didattica più diffusa, mostrando che ciò che si considerava una prova regina dell’espansione è in realtà il punto dove il modello standard rivela la sua fragilità.

Esito tecnico finale
Il test è da considerarsi superato pienamente. Le previsioni della CMDE si accordano con i dati osservativi e forniscono una spiegazione naturale della deviazione, mentre il modello standard, che vincola rigidamente dilatazione e redshift, risulta falsificato nel dominio delle supernovae a più alto redshift. Questo risultato va quindi interpretato come una rottura metrica fondamentale: l’universo non dilata il tempo degli eventi secondo la semplice legge geometrica dell’espansione, ma secondo una trasformazione informazionale più complessa, già prevista dalla CMDE e ora confermata dai dati.

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