z(t): la curva che non poteva essere diversa
- Ivan Carenzi

- 1 ago
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 6 set

Ci sono curve che si costruiscono a partire dai dati, inseguendo punti, limando residui, rincorrendo il miglior fit. E poi ci sono curve che nascono prima. Nascono da una necessità interna, da una coerenza che non chiede il permesso ai numeri, ma li attende come conferma. z(t), nella CMDE 4.1, è questo tipo di curva. Non è stata scelta tra mille forme possibili: è emersa come l’unica compatibile con un universo che non si espande, ma si trasforma nel tempo. E una volta che si accetta questo cambio di prospettiva, diventa chiaro: non poteva essere diversa.
Tre tratti, una sola voce. Il primo, iperprimordiale, è un’esplosione silenziosa. Non ha l’impeto dello spazio che si dilata, ma la precisione di un’informazione che affiora da uno stato informe. Serve un’esponenziale stretta, rapidissima, quasi verticale, ma senza mai diventare infinita. È il momento in cui il tempo non è ancora nato, ma inizia a prendere forma. Una curva che sale non perché qualcosa fugge, ma perché qualcosa inizia a distinguersi, a ordinarsi, a comunicare.
Il secondo tratto è un raccordo, ma non nel senso classico. È il punto in cui la curva decide di non spezzarsi, di non fare salti, di non introdurre discontinuità. La CMDE pretende coerenza profonda, e il raccordo dolce risponde. Serve una sigmoide, qualcosa che cresce ma frena, che connette senza urti la nascita del tempo alla sua maturazione. Non è un trucco: è l’unico modo in cui una trasformazione informazionale può diventare storia, memoria, sequenza.
Il terzo tratto è quello che tutti credono di conoscere: la fase classica, razionale, regolare. La parte che potrebbe quasi sembrare una funzione standard, se non fosse per ciò che la precede. Qui z(t) si assesta, si linearizza parzialmente, diventa leggibile. Ma è proprio perché arriva dopo quei due tratti iniziali che assume senso. È la calma dopo la formazione, l’ordine dopo il caos non come imposizione, ma come conseguenza metrica. Nessun artificio, nessuna correzione: la forma si scrive da sola se si segue fino in fondo la logica di un universo informazionale.
Chi guarda la formula di z(t) e pensa che si potesse scegliere qualcos’altro, non ha ancora visto la sua inevitabilità. Non era una funzione da indovinare: era una curva da riconoscere, da lasciar emergere. E quando finalmente si mostra nella sua interezza, con il suo tratto iniziale che sfugge alla metrica classica, con il suo raccordo che plasma la direzione, con la sua stabilità che arriva solo alla fine, allora tutto si chiarisce. L’universo non si allontana. Si scrive. E z(t) è la sua sintassi originaria.


