CMDE contro l’espansione dello spazio? Il confronto che cambia la cosmologia
- Ivan Carenzi

- 27 giu
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 8 set

La cosmologia standard si fonda su un presupposto geometrico apparentemente intoccabile: lo spazio si espande. È l’ipotesi che sta dietro a ogni interpretazione dei dati, dal redshift al fondo cosmico a microonde, ed è ciò che ha dato forma all’intero edificio del modello ΛCDM. Ma se quell’ipotesi iniziale fosse errata, tutto il resto vacillerebbe. La CMDE 4.1 nasce proprio da questa domanda radicale e propone un impianto alternativo, in cui non è lo spazio a crescere ma il tempo stesso a trasformarsi come campo attivo. Non si tratta di cambiare linguaggio, ma di cambiare metrica.
Se guardiamo i due approcci a confronto, il modello ΛCDM legge il redshift come un allungamento delle distanze, costruisce le coordinate comoventi per seguire lo spazio che si dilata e considera il tempo un parametro passivo, un semplice sfondo. La CMDE ribalta la prospettiva: il redshift non è un effetto geometrico ma un processo informazionale, generato dalla funzione z(t) che scandisce la trasformazione della luce nel tempo. Le distanze non sono preimpostate: emergono come riflesso del ritmo temporale. E il tempo, invece di essere un accessorio, diventa il vero protagonista, organizzato in tre fasi coerenti e verificabili.
Il punto diventa ancora più evidente quando si guardano i dati più recenti. Il telescopio JWST, ad esempio, ha mostrato galassie massicce troppo precoci per la cronologia prevista dal modello standard. Con ΛCDM non bastano aggiustamenti marginali: servono varianti ad hoc per tenere in piedi l’espansione spaziale. Nella CMDE, invece, quelle stesse strutture sono naturali, perché il ritmo di trasformazione informazionale nelle fasi iperprimordiale e di raccordo dolce prevede che la formazione precoce non solo sia possibile, ma sia la conseguenza diretta della metrica stessa. Laddove il modello classico cerca correzioni, la CMDE mostra coerenza.
Questo vale anche per il cuore delle equazioni. Nel modello standard, la curva che lega redshift e tempo dipende da integrali sull’andamento di H(z), ma il valore di H(z) cambia a seconda dei dataset, rivelando una fragilità interna. La CMDE non parte da H(z): lo genera. Una funzione unica, continua e derivabile, capace di anticipare i dati senza doverli adattare. Dopo oltre centoquaranta test superati, tra Planck, Pantheon+, Euclid e SKA, il messaggio è chiaro: non c’è bisogno di un universo che si espande, basta un tempo che si struttura. E il confronto con i dati non mostra una forzatura, ma una conferma progressiva.
Così la vera domanda non è se sia possibile spiegare il redshift senza l’espansione dello spazio, ma perché si continua a credere che lo spazio debba crescere a tutti i costi quando esiste una metrica del tempo che funziona meglio, con meno ipotesi e più coerenza. La CMDE non nega l’universo osservato: lo ridefinisce. Dove il modello classico vede geometria, la CMDE vede ritmo. Dove cerca correzioni, la CMDE trova struttura. E in questo passaggio il confronto non è soltanto teorico: è la chiave che può cambiare la cosmologia.


