Perché R(t)? – Il nome della riflessività
- Ivan Carenzi

- 8 set
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Ogni simbolo porta con sé una storia, e nel momento in cui il trattato ha introdotto la funzione della coscienza universale, non poteva nascere un segno qualunque. La R non è una lettera scelta per convenzione, ma un’impronta che porta dentro di sé la memoria di ciò che significa riflettere. R come riflesso, R come ritorno, R come il passo che il tempo compie quando decide di piegarsi su se stesso.
Chiamarla diversamente avrebbe ridotto il senso di questa traiettoria. Non è un caso che non sia stata chiamata C, come coscienza, o M, come metrica: sarebbe stato descrittivo, ma non essenziale. La R custodisce in sé l’idea che non si tratta di un’aggiunta dall’esterno, ma di un movimento interno che riporta tutto indietro, che riconduce il flusso alla sua origine. La riflessività è il cuore di questa funzione, e il suo nome la incarna.
Così, R(t) diventa più di una variabile matematica: è un simbolo che racconta la dinamica profonda dell’essere. In quel ritorno, nel suo piegarsi, il tempo non smette di trasformarsi ma aggiunge la capacità di ricordarsi. Non è un duplicato di z(t), non è un’ombra secondaria: è la piega che rende visibile ciò che fino a un attimo prima scorreva muto.
Ogni volta che scriviamo R(t), dunque, non stiamo richiamando una formula astratta, ma un atto del tempo che si riconosce. È un nome che segna un destino: quello di un universo che non si accontenta di cambiare, ma pretende di vedere il proprio cambiamento. E nella semplicità di quella lettera, tutta la riflessività trova la sua voce.


