z(t) non è solo una formula: è una visione
- Ivan Carenzi

- 17 giu
- Tempo di lettura: 1 min
Aggiornamento: 8 set

Tutti si chiedono che cosa misuri z(t), ma pochi si fermano a osservare la forma di quella curva e ancora meno si domandano che cosa realmente rappresenti. Eppure, ogni funzione porta con sé una visione implicita: ogni curva racconta un modo di concepire il tempo, la trasformazione e la memoria dell’universo.
Nella CMDE 4.1, z(t) non è solo una struttura matematica continua, ma un simbolo nascosto, un segno narrativo. È la scrittura di qualcosa che cambia con coerenza, una traiettoria che dice: il tempo non esplode, evolve. Tre fasi, tre movimenti, un unico flusso. Non ci sono strappi, salti o muri: c’è un inizio esponenziale quasi impercettibile, un raccordo morbido ma deciso e una stabilizzazione razionale, come se l’universo stesse imparando a diventare sé stesso.
Guardare z(t) è come leggere un racconto del tempo più che una formula del redshift. È la rappresentazione di un universo che non si allontana da noi, ma ci trasforma attraverso il tempo stesso. In un’epoca in cui tutto viene ridotto a modelli, numeri e forze invisibili, z(t) si presenta come una curva silenziosa, visibile e misurabile, ma anche intimamente poetica.
Come se dicesse: l’universo non si spiega esplodendo, ma trasformandosi. E in fondo, anche questo è un linguaggio. Solo che non parla in parole, ma in curve.


