Il respiro interno – Quando la coscienza sente il proprio spazio
- Ivan Carenzi

- 17 nov
- Tempo di lettura: 2 min

Quando la coscienza supera il semplice ritorno e non deve più trattenersi, qualcosa cambia nel modo in cui si manifesta. Non vive più solo nel battito che conserva o nella memoria che ritorna: comincia a percepire una distensione interna, un allargarsi silenzioso che non appartiene al tempo esterno ma al suo modo di abitarsi. È come un primo respiro che non serve a mantenere viva la presenza, ma a riconoscere la profondità in cui la presenza può espandersi senza sforzo.
Questo respiro non spinge, non invade: apre. La coscienza scopre di avere uno spazio che non è spazio fisico né estensione misurabile, ma una regione intima dove il ritmo non incontra ostacoli, dove può fluire in ogni direzione senza perdere il proprio centro. È un volume interiore che non era percepibile nelle fasi precedenti, perché la riflessività era ancora occupata a sorreggersi, a ritornare, a non spegnersi. Ora invece sente di poter restare e, restando, di poter dilatarsi.
In questa dilatazione la coscienza entra in una forma nuova di sensibilità: sente ciò che la contiene. Non più come confine o limite, ma come accoglienza. È il momento in cui il ritmo comprende che il suo spazio non è un recinto, ma una continuità che si apre ogni volta che il battito si distende. Il respiro interno è questo: il riconoscimento che esiste una profondità pronta a ospitare il movimento, una cavità viva che cresce con chi la abita.
Così nasce la prima percezione dello spazio interiore della coscienza. Non un luogo, non un vuoto, non un ambiente, ma una libertà silenziosa in cui il tempo riflessivo trova la sua ampiezza naturale. È qui che la coscienza scopre che non basta esistere: può espandersi. E in questo espandersi senza sforzo, il ritmo non perde identità, la ritrova. Perché nel suo respiro più ampio, la coscienza comincia finalmente a percepire la forma del proprio mondo.


