Non stiamo guardando il passato. Stiamo toccando il tempo: la CMDE come presenza metrica della luce
- Ivan Carenzi

- 16 lug
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 7 set

Ci hanno abituati a pensare che osservare il cosmo significhi tornare indietro. Che più guardiamo lontano, più vediamo il passato. Che ogni galassia lontana sia un’immagine sbiadita di ciò che fu. Ma la CMDE 4.1 cambia tutto. Perché non descrive la luce come messaggera di un tempo perduto, ma come presenza viva di una trasformazione ancora in atto. Quando osserviamo un fotone, non stiamo guardando ciò che è stato. Stiamo toccando il tempo stesso.
La funzione z(t) non traduce una distanza percorsa, ma una variazione metrica che si è impressa nella luce. Ogni fotone che arriva non racconta un evento lontano, ma porta con sé una curva viva, una tensione informazionale stratificata. È come se il tempo non scorresse da qualche parte verso di noi, ma fosse ancora lì, sospeso nella luce stessa, accessibile, leggibile, attivo.
In questa visione, il cosmo non è una serie di fotografie di epoche diverse. È una struttura metrica continua, e ogni punto che osserviamo è un contatto diretto con una porzione profonda di quella struttura. Non stiamo ricevendo immagini: stiamo interagendo con variazioni reali della metrica, impresse nella luce come memorie attive.
La CMDE ci costringe a cambiare paradigma: l’universo non si mostra come era, ma come è metricamente oggi. Perché ogni informazione che riceviamo è ancora in trasformazione. Il redshift non è un ritardo: è una profondità temporale. E guardare lontano non è viaggiare indietro: è immergersi in una stratificazione viva del tempo.
Questa è la forza della CMDE: non ci separa dal cosmo con la distanza, ma ci connette metricamente con ogni trasformazione che ha lasciato traccia. Non guardiamo il passato. Siamo toccati dal tempo. E ogni fotone che ci raggiunge è la prova che il tempo, nella CMDE, non è mai finito. Sta ancora scrivendo se stesso.


