L’universo come campo di memoria: la CMDE e la percezione del tempo
- Ivan Carenzi

- 4 lug
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 8 set

Non basta dire che il tempo, nella CMDE 4.1, è una trasformazione informazionale. Occorre chiedersi: che cosa resta mentre si trasforma? Se ogni fotone è portatore di variazione, dove si registra la traccia di questa variazione? È qui che entra in gioco un’idea decisiva: nella CMDE, l’universo è un campo di memoria. Non una semplice successione di momenti, ma un tessuto stratificato di informazioni, dove ogni cambiamento lascia una impronta che resta.
In ogni fase – iperprimordiale, raccordo, classica – la metrica non cancella, non ripulisce, non resetta. Al contrario: la struttura che si forma è la somma di ogni trasformazione precedente. Ogni punto della curva z(t) è anche un deposito. Un nodo in cui l’universo ha deciso di conservare parte di sé. Non per nostalgia, ma per ragione metrica: senza memoria, la coerenza si disperde; con memoria, persino la variazione acquista senso e stabilità.
Questo spiega qualcosa di potente: perché possiamo effettivamente leggere la storia cosmica nella luce. Ogni fotone che osserviamo oggi non porta solo informazioni sull’istante in cui è stato emesso. Porta con sé, stratificata, la consistenza del tempo stesso. È un messaggero con una cronologia incorporata, non un’istantanea casuale. Ecco perché la CMDE non ha bisogno di triangolazioni con costituenti invisibili: ciò che osserviamo è già testimonianza strutturata.
Pensalo come un palinsesto cosmico che non si distrugge con passaggi successivi, ma che resta leggibile in profondità: non serve riscrivere lo spazio, basta leggere lo strato giusto. E ogni strato è parte del medesimo codice informazionale che si è scritto fin dall’inizio, nel momento in cui la metrica ha cominciato a formulare “essere tempo” invece di “essere spazio”.
Guardare il cielo non è quindi guardare lontano. È guardare dentro un universo stratificato, dotato di memoria, composto non da coordinate ma da tracce metriche. È scoprire che ciò che sembra passato è ancora presente. È comprendere che il tempo, secondo la CMDE, non è fuggevole: è persistente.


