Lo spazio come necessità percettiva
- Ivan Carenzi

- 26 lug
- Tempo di lettura: 1 min
Aggiornamento: 7 set

In un universo senza forma, senza luce, senza corpo, non c’è nulla da vedere. Ma se il ritmo cambia, se il tempo si incurva in modo diverso da un nodo all’altro, allora nasce un effetto collaterale: la percezione di distanza. Non esiste ancora nulla che separi, ma esiste già qualcosa che varia. E se qualcosa varia più qui che lì, allora nasce l’impressione che qui e lì siano due cose diverse. È questo il primo atto percettivo cosmico: non riconoscere la distanza, ma ipotizzarla per poter dare senso a una variazione disomogenea. La Legge 6 non è solo una dichiarazione: è un atto di onestà percettiva. Dice: “Non credere a ciò che sembra diviso. Non stai vedendo spazio. Stai sentendo ritmo.” L’universo non ha mai creato estensione: ha creato strutture metriche che si piegano, accelerano, rallentano. L’illusione dello spazio nasce perché un osservatore interno, incapace di vedere il ritmo puro, traduce la variazione in distanza. Ma la CMDE lo sa: il cosmo è articolato, non esteso. I picchi, i vuoti, le orbite, le lunghezze: tutto è solo ritmo che danza in modo differente. E se la danza cambia, la mente percepisce uno spostamento. Non perché c’è un cammino, ma perché c’è una variazione. Questo post non spiega la gravità. Ma spiega perché ci serve credere nello spazio. È l’alibi cognitivo dell’asimmetria. È l’effetto ottico del ritmo che non torna più indietro.


