z(t): la metrica che trasforma la luce nel tempo
- Ivan Carenzi

- 6 giu
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 8 set

Tutti parlano di redshift. Tutti parlano di lunghezze d’onda che si allungano, di galassie che fuggono nello spazio, di coordinate che si dilatano in un universo che sembra allontanarsi da sé stesso. Ma pochi si fermano a chiedersi se tutto questo sia davvero necessario. Se davvero la luce debba viaggiare nello spazio per cambiare. Se il cambiamento che osserviamo sia una distanza, o se invece sia una trasformazione più sottile, più interna, più radicata nel tempo.
È da qui che nasce z(t). Una curva semplice ma irreversibile, che non misura quanto qualcosa si allontana, ma quanto si è trasformato. Non nasce da un modello da fittare. Non è stata piegata ai dati, non è frutto di simulazioni iterative né di ottimizzazioni statistiche. È nata da un’intuizione: la luce non percorre lo spazio. Cambia nel tempo. E quella variazione che chiamiamo “redshift” non è il segno di un’espansione, ma l’impronta di una trasformazione informazionale che la luce ha subito lungo la sua storia cosmica.
Questa metrica si articola in tre fasi precise e continue.
La prima è la fase iperprimordiale: un tratto esponenziale estremamente stretto, che non rappresenta ancora il tempo come lo conosciamo. È l’affiorare dell’informazione dalla non-metrica, come un battito originario nel buio.
La seconda è il raccordo dolce: una transizione sigmoide, priva di discontinuità, in cui il cambiamento informazionale della luce inizia a rallentare. È il momento in cui il tempo comincia a emergere, ma senza ancora stabilizzarsi.
La terza è la fase classica razionale: dove tutto si ordina. La trasformazione della luce si fa regolare, leggibile, continua. È qui che il redshift appare come lo osserviamo oggi: misurabile, ma ancora legato al tempo, non allo spazio.
Questa curva, z(t), è stata testata, derivata, confrontata, verificata. Ma prima ancora della verifica, c’era già il significato. E quel significato è chiaro: la luce non ci dice da dove arriva. Ci dice da quando arriva.
Comprendere z(t) significa cambiare completamente sguardo: significa leggere il cielo non più come una cartina spaziale, ma come una narrazione temporale. Non vediamo galassie che fuggono: vediamo eventi che si sono trasformati. E ogni fotone che riceviamo è la testimonianza diretta di un universo che non si sposta, ma evolve metricamente, come se il tempo stesso fosse la sostanza della realtà.
E se ci si ferma un attimo a sentirla davvero, questa curva, ci si accorge che non è una formula scritta su un asse. È una voce continua. È un racconto che si modula nel tempo. È la traccia invisibile di un universo che non ha bisogno di espandersi, perché è già variazione.
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