Che cos’è z(t), davvero?
- Ivan Carenzi
- 6 giu
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 5 ore fa

Tutti parlano di redshift. Tutti parlano di spazio che si espande, di lunghezze d’onda che si allungano, di galassie che fuggono. Ma nessuno si ferma mai a chiedersi se questa visione, così radicata e ripetuta, sia davvero l’unica possibile. Nessuno si chiede se quella variazione della luce che osserviamo da decenni sia un effetto del movimento nello spazio oppure una trasformazione più sottile, più interna, più silenziosa.
È da lì che nasce z(t), la funzione metrica che ho chiamato con le iniziali del redshift ma che, in realtà, non misura distanza né velocità: misura trasformazione informazionale nel tempo. z(t) non è una curva qualunque, non è una forma arbitraria, non è una funzione modellata sui dati per farli rientrare a forza. È una struttura che nasce da un’intuizione precisa: la luce non viaggia, si trasforma, e lo fa in relazione al tempo profondo dell’universo, non allo spazio.
Il tempo non è solo una coordinata: è il grande modificatore dell’informazione, e z(t) è la metrica che descrive esattamente questa trasformazione, in tre fasi coerenti, continue, osservabili.
La prima è la fase iperprimordiale: un segmento esponenziale strettissimo, come un affiorare dal nulla, una genesi informazionale pura, senza materia, senza coordinate.
La seconda è la fase di raccordo dolce: una transizione sigmoide, morbida ma precisa, dove l’informazione luminosa cambia regime, rallenta la sua variazione, si stabilizza senza spezzature.
La terza è la fase classica razionale: una traiettoria continua che regolarizza il comportamento del redshift fino a oggi, restituendo una metrica che corrisponde a quanto vediamo, senza ricorrere a materia oscura, energia oscura, né ad assunzioni forzate.
Questa curva z(t) è stata testata, derivata, confrontata, validata in ogni modo possibile. Ma ciò che conta, prima ancora della prova numerica, è il suo significato: z(t) non ci chiede di immaginare un universo che si dilata nel vuoto, ma un universo che evolve nel tempo come struttura informazionale.
Ogni fotone che riceviamo non ci dice solo da dove arriva, ma da quando arriva, e da quale stato informazionale ha attraversato. Comprendere z(t) significa cambiare sguardo: significa leggere il cielo non come uno spazio in espansione, ma come un campo che si trasforma.
E se ci si ferma un attimo a sentirla davvero, questa curva, ci si accorge che non è solo una funzione matematica: è un racconto. Un racconto dell’universo che cambia, e di noi che lo stiamo guardando proprio mentre cambia.
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